Marco Mamone
Capria
Difendere
la vivisezione come “ricerca di base”
In Italia i media sono stati nelle ultime settimane
invasi da interventi a favore della vivisezione. Ciò si deve
soprattutto alla risonanza avuta da alcuni successi ottenuti dal
movimento antivivisezionista (scimmie della Harlan, cani beagle di
Green Hill). Quindi, a me, oppositore della sperimentazione animale
invasiva (storicamente e comunemente detta “vivisezione”,
anche se il termine non piace a chi la pratica), tale massiccia
reazione appare di buon auspicio.
Avendo scritto abbastanza estesamente sull'argomento1,
vorrei limitarmi qui a smascherare una strategia retorica
relativamente nuova e che i vivisezionisti (cioè i partigiani
della vivisezione) stanno adottando in misura crescente. Ricorda
molto da vicino un gioco da fiera di antiche tradizioni, il
cosiddetto “gioco delle tre carte”. Questo gioco, come il
lettore saprà, consiste nel deviare l'attenzione degli astanti
in modo che siano indotti a puntare su una delle due carte sbagliate
e mancare quella giusta.
La strategia retorica a cui alludo procede in maniera
analoga: a chi chiede perché mai dovremmo permettere, e in
buona parte, come contribuenti, finanziare la vivisezione, i
vivisezionisti (V) rispondono: “Perché solo così
si può permettere alla medicina di progredire”. Allora
gli oppositori (AV) citano qualcuna delle tante crisi sanitarie
causate nell'ultimo mezzo secolo dall'illusione di poter applicare i
risultati della sperimentazione animale alla medicina, e il dialogo
prosegue più o meno così:
V: – Ma noi non diciamo che i risultati ottenuti
sugli animali siano immediatamente applicabili alla medicina!
A: – Tuttavia le estrapolazioni che hanno portato
alle citate catastrofi erano state considerate scientificamente
legittime dalla vostra comunità
professionale... Ma, comunque sia, accettiamo questa ritrattazione:
come potete allora continuare a sostenere che senza
la vivisezione si arresterebbe il progresso medico?
V: – Lo sosteniamo perché gli esperimenti
su animali, anche se non possono essere direttamente applicati
all'uomo, fanno parte della cosiddetta “ricerca di base”,
e senza ricerca di base non può esserci progresso medico.
Notate lo spostamento
dell'attenzione: all'inizio
la vivisezione viene presentata come se fosse uno strumento
essenziale di scoperta medica, alla fine ci
si chiede di considerarla come una branca importante della ricerca di
base, cioè di quel tipo di ricerca che, essendo guidata dalla
curiosità dei ricercatori, non ha in sé stessa scopi
applicativi, anche se potrebbe, alla lunga e per vie
traverse e imprevedibili, suggerire
qualche applicazione utile.
È
ovvio che non si tratta della stessa cosa.
Nel valutare la ricerca di base, in qualsiasi campo, e nel decidere
di finanziarla, si adottano criteri diversi da quelli dell'utilità
per i cittadini: per esempio, si può pensare che sia giusto
investire nel perfezionamento di una branca del sapere (non so, la
topologia algebrica o la papirologia, per entrambe le quali ho il
massimo rispetto) in vista del prestigio culturale che si riflette
sulla società che compie un tale investimento. Ma questo è
ben diverso dall'avanzare pretese di pubblica
utilità,
e ormai i vivisettori hanno imparato molto bene due cose, emerse per
esempio dalla consultazione europea del 2006 (da me analizzata in un
articolo2):
1)
una grande maggioranza dell'opinione pubblica in tutti i paesi civili
trova riprovevole
ciò che fanno;
2) questo rifiuto è meno forte in quel
settore del pubblico che si è riusciti a convincere che senza
vivisezione la medicina cesserebbe di progredire.
Non
c'è da stupirsi del fatto che un certo numero di persone, pur
rifiutando istintivamente la vivisezione, sia disposto a tollerarla
se l'alternativa fosse l'impossibilità di curare malattie
gravi. In fondo basta dipingere il “nemico” a colori
abbastanza foschi per convincere i cittadini di un paese sedicente
civile a dare il proprio silenzio-assenso alla guerra,
cioè allo
sterminio pianificato di masse di umani di
un altro paese. Così, se gli esperimenti su animali si
traducono in applicazioni mediche, allora per molti diventano
tollerabili
(ma
anche per costoro sarebbe molto meglio se si riuscisse a
sostituirli!), mentre se sono “ricerca di base” –
cioè, in sostanza, se sono eseguiti al solo scopo di
soddisfare una curiosità intellettuale –, allora sono
giudicati inammissibili, senz'appello, dalla stragrande maggioranza.
Ecco
perché diventa indispensabile, per i vivisezionisti impegnati
nella comunicazione con il pubblico, rendere la distinzione tra
ricerca di base e ricerca applicata il
più possibile sfocata.
Nella
Dichiarazione di Basilea,3
un documento pubblicato in varie lingue il 29 novembre 2010 per
iniziativa di un gruppo di vivisettori, si legge appunto che «non
è possibile separare la ricerca biomedica di base dalla
ricerca applicata. Si tratta
di un continuum
che
spazia dall'esplorazione dei processi fisiologici di base alla
comprensione dei principi della malattia fino allo sviluppo di nuove
terapie».
Questi
autori hanno evidentemente un'idea alquanto confusa di che cosa sia
un continuum.
Che i numeri reali tra 0 e 1 formino – come in effetti formano
– un continuum
non
significa che non si possa «separare» 0 da 1. Forse
vogliono dire che vi sono ricerche che sarebbe difficile classificare
univocamente come “ricerca di base” o “ricerca
applicata”. È vero, ma l'ambiguità dei casi
intermedi non rende inutile distinguere tra i casi tipici
dell'una
e dell'altra categoria.
Del
resto, la suddetta Dichiarazione denota una vaga consapevolezza della
situazione reale, là dove dice: «
Per
la maggior parte delle circa 30.000 malattie umane, le terapie
disponibili offrono solo un sollievo dei sintomi senza individuarne
però le cause»: forse agli autori è sfuggito che
di questa lamentevole situazione è responsabile anche un
secolo e mezzo di ricerca di base largamente fondata sulla
sperimentazione animale...
Quest'ultima
affermazione va però approfondita, cercando di chiarire due
aspetti: A) quanto la medicina sia debitrice alla ricerca di base, e
B) quale sia la proporzione di vivisezione nella ricerca di base.
Paradossalmente,
il punto B) è il più difficile da stabilire con
precisione, in quanto la trasparenza dei dati sui progetti di ricerca
approvati non è affatto quella che sarebbe desiderabile.
Ritengo tuttavia ragionevole la stima di “almeno la metà”
(ma probabilmente molto di più): che cioè almeno
la metà dei progetti di ricerca classificati come ricerca
biomedica di base riguardino esperimenti invasivi su esseri
senzienti.4
A
questo proposito occorre fare una precisazione, anche se per alcuni
lettori sarà superflua: non tutti i sistemi viventi
si possono qualificare come senzienti
e,
a maggior ragione, come capaci di provare dolore o piacere. Cellule,
virus, batteri, organismi unicellulari, vegetali, funghi e, appena un
po' meno sicuramente, anche gli animali classici della genetica, cioè
il moscerino della frutta (Drosophila
melanogaster)
e il nematodo (Caenorhabditis
elegans),
non sono qualificabili come esseri che provano dolore o piacere.5
Questo naturalmente non vuol dire che chi distrugge un fiore fa
qualcosa di moralmente irrilevante, ma solo che la rilevanza morale
di questo gesto non ha a che fare con l'ipotesi di un dolore provato
dal fiore. Ed è appena il caso di aggiungere che un
esperimento moralmente lecito non è per ciò stesso
valido dal punto di vista scientifico – per non parlare
dell'utilità clinica, il punto A), a cui adesso ci volgiamo.
Per
il punto A) possiamo rifarci a un importante e qualificato studio
statistico che è stato effettuato una decina di anni fa.6
In questo studio sono stati analizzati circa 25.000 articoli di
ricerca di base pubblicati durante un quinquennio (1979-1983) in un
gruppo di riviste biomediche molto prestigiose, e si è andato
a verificare nei 30 anni successivi quanti di essi avessero portato a
progressi in campo clinico.
Capisco che
per chi è quasi quotidianamente assillato da questue
televisive e da lettere di fondazioni mediche che lo invitano a
destinare il 5x1000 alla «Ricerca Scientifica», la
proporzione che sto per rivelare costituirà uno choc. Dopo
essermi assicurato che il lettore stia leggendo questo testo stando
comodamente seduto, posso citare il risultato: un
solo articolo su 25.000.
Cioè una percentuale dello 0,004%. Poiché desidero che
non si pensi che questa sia una mia eccentrica interpretazione,
vorrei citare per esteso l'autorevole descrizione dello sconcertante
risultato contenuta nell'editoriale del numero della rivista in cui
lo studio è apparso:
L'articolo di
Contopoulos-Ioannidis et al. [2003] in questo numero della
rivista tratta una questione molto discussa ma raramente
quantificata: la frequenza con cui i risultati della ricerca di base
si traducono in utilità clinica. Gli autori eseguirono una
ricerca algoritmica al computer di tutti gli articoli pubblicati in
sei delle principali riviste scientifiche (Nature, Cell,
Science, Journal of Biological Chemistry, Journal of
Clinical Investigation, Journal Experimental Medicine) dal
1979 al 1983. Dei 25.000 articoli ricercati, circa 500 (2%)
contenevano qualche pretesa di potenziale applicazione agli umani,
circa 100 (0,4%) hanno portato a una prova clinica e, secondo gli
autori, solo 1 (0,004%) ha
condotto allo sviluppo di una classe di farmaci clinicamente utili
(gli inibitori dell'enzima convertitore dell'angiotensina) nei 30
anni successivi alla pubblicazione del risultato scientifico di base.
Essi hanno anche trovato che la presenza di supporto industriale
aumentava la verosimiglianza di tradurre un risultato di base in una
prova clinica di 8 volte. Tuttavia, indipendentemente dalle
limitazioni dello studio, e anche se gli autori avessero sottostimato
di un fattore 10 la frequenza di traduzioni con successo in prove
cliniche, i loro risultati suggeriscono fortemente che, come la
maggior parte degli osservatori sospettavano, il tasso di
trasferimento della ricerca di base all'utilizzo clinico è
molto basso.7
Tornando alla
vivisezione, anche se la ricerca di base vivisezionista fosse “solo”
il 50% di tutta la ricerca di base biomedica, avremmo comunque una
frequenza di traduzione clinica della vivisezione estremamente
bassa. In altre parole, dallo studio di Contopoulos-Ioannidis
e collaboratori si ricava che il potenziale euristico della
vivisezione dal punto di vista delle applicazioni cliniche è
irrisorio. Ed è interessante notare che alla prova clinica
ci si arriva (considerando di nuovo tutta la ricerca di base) solo
nello 0,4% dei casi, il che significa che nel 99,6% dei casi la
scoperta scientifica di base o è stata ritenuta in linea di
principio clinicamente irrilevante nei successivi 30 anni (e
questa è la stragrande maggioranza), oppure ha fallito la
prova clinica. Quanto siamo lontani dalle “promesse
applicative” che si trovano più o meno esplicitamente in
tanti articoli biomedici e, più sfacciatamente e
frequentemente, nelle sintesi che ne fanno i principali media!
Lo studio di cui
abbiamo parlato è stato seguito da molti altri interventi e
commenti dedicati a quello che è oggi considerato un grosso
problema di impostazione per la ricerca biomedica in generale, e che
ha addirittura creato una nuova specialità accademica:
l'indagine sulle possibili traduzioni cliniche di risultati della
ricerca di base (o «translational research»). Gli
articoli dedicati da una rivista dell'establishment come Nature
al tema portano titoli simpatici come «Perduto in traduzione»
e «Attraversare la valle della morte» (Butler 2007,
2008) – la «valle della morte» essendo appunto
quella tra la ricerca di base e le applicazioni mediche. Il Wall
Street Journal ha trattato il tema nell'aprile 2003 parlando del
rischio che si «stracci […] l'implicito contratto
sociale tra il pubblico e l'establishment della ricerca biomedica»,
e cita un immunologo della Rockefeller University, Ralph Steinman,
che ha dichiarato: «I pazienti sono stati troppo pazienti con
la ricerca di base».8
A questo punto mi si
permetterà una scommessa che sono sicuro di vincere: scommetto
che il lettore medio (compreso il laureato in discipline biomediche)
non ha praticamente mai sentito dire – dai giornali,
dalle televisioni, o dai suoi professori a lezione – che questa
è una problematica importante e preoccupante. E come potrebbe?
Ciò che gli si propina è costantemente il contrario,
cioè la leggenda sulle vie misteriose di una provvidenza
scientifica che farebbe imbattere gli scienziati in scoperte mediche
mentre nei loro laboratori manipolano topi, ratti, conigli, cani e
scimmie ecc. Sembra un altro pianeta – no, è davvero
un altro pianeta, ma non esiste nella realtà, bensì
soltanto nella interessata fantasia dell'industria
medico-farmaceutica e di un certo mondo accademico.
A conferma di ciò,
ecco per esempio come comincia il primo dei due articoli di Nature
sopra menzionati:
Leggete un qualsiasi
articolo scientifico o proposta di finanziamento sulla ricerca di
base riguardante le malattie trascurate e troverete
inevitabilmente l'affermazione che il lavoro potrebbe condurre a
nuove terapie per malattie che affliggono milioni di persone nel
mondo in via di sviluppo. Di fatto sono pochi i casi in cui ciò
accade, e scienziati, università e finanziatori della
ricerca si stanno risvegliando alla realtà che una parte della
colpa sta in loro stessi e in una cultura premiale che si
concentra eccessivamente su articoli e brevetti, e non su quanto la
ricerca benefici effettivamente la società.9
Ecco come il biologo
molecolare Alan Schechter dei National Institutes of Health
statunitensi descrive la situazione:
“NIH sta per
National Institutes of Health, non per National Institutes of
Biomedical Research, o per National Institutes of Basic Biomedical
Research. […] Non stiamo vedendo le scoperte terapeutiche
che la gente ha il diritto di aspettarsi”.
E un dirigente dei
NIH, Barbara Alving, arriva a dire, senza mezzi termini, che «Gli
scienziati clinici e quelli di base non comunicano realmente».10
Altro che continui travasi della ricerca di base nel sapere clinico –
i cultori dell'una e dell'altra area nemmeno si parlano...
Non c'è
dubbio che rendere conto ai propri lettori di questo attualissimo e
imbarazzante dibattito interno alla comunità biomedica sarebbe
stato infinitamente più utile che diffondere pseudo-notizie su
improbabili e oracolari sviluppi medici di risultati ottenuti su
questa o quella specie animale (“ci vorranno almeno 10
anni”...). Sempreché, s'intende, la funzione del sistema
dell'informazione nelle nostre società fosse di fornire
informazioni vere e utili, cosa della quale è più che
lecito dubitare.
Un buon criterio
della serietà dei nostri media sarebbe il loro impegno ad
andare a verificare regolarmente le promesse applicative passate,
piuttosto che perseverare nella finzione che la decimillesima o la
milionesima promessa sia... una notizia. Ma dallo studio statistico
di cui abbiamo parlato dovrebbe ormai essere chiaro perché i
principali media a verificare le promesse di 10 anni fa non ci vanno:
l'esito della verifica sarebbe scontato – e non farebbe per
niente piacere a certi gruppi industriali che gratificano giornali e
canali televisivi con le loro preziose inserzioni pubblicitarie...
Per quanto ci
riguarda, continuiamo a tenere i piedi per terra e chiediamoci ora se
ci sono studi effettuati specificamente sulla letteratura
vivisezionista e intesi a valutarne l'utilità clinica. La
risposta è che ci sono. I loro risultati, come ho già
avuto modo di scrivere, sono devastanti.
Non ripeterò
le citazioni che ho riportato in un altro articolo,11
se non per ricordare che una delle più gloriose testate
mediche mondiali, il British Medical Journal, fondata nel
1840, ha pubblicato nel 2004 uno studio dal titolo: “Dove sono
le prove che la ricerca su animali porta beneficio agli umani?”.
Una pausa di
riflessione: qualsiasi lettore dotato di un minimo di cultura capisce
che una rivista scientifica seria può pubblicare un articolo
con questo interrogativo nel titolo solo se considera acquisito che
la questione non ammetta le risposte di comodo che danno i
vivisezionisti (ecco un esempio quasi incredibile ma reale: «Il
giorno che non ci sarà più la sperimentazione sugli
animali finirà la medicina»12).
Inoltre, per quanto ci siano ottime ragioni a favore della dieta
vegetariana,13
non è affatto necessario parlarne quando ci si occupa di
metodologia della ricerca biomedica, e neppure essere vegetariani per
dubitare della solidità della vivisezione sotto questo
profilo: sono due questioni distinte, per quanto sia i
vivisezionisti sia una parte del mondo animalista si siano uniti in
una strana alleanza che cerca di confonderle.
Tornando
all'articolo suddetto, la conclusione dei suoi autori è che
bisognerebbe stabilire una moratoria per tutta la sperimentazione
animale. Nel seguito sono apparsi altri articoli, alcuni dei
quali tentano di spiegare l'inapplicabilità degli esperimenti
su animali al contesto clinico sottolineando i difetti di
impostazione degli esperimenti su animali e le distorsioni causate
dalle strategie di pubblicazione delle ricerche. Anche se considero
sbagliata l'idea stessa di modello animale per problemi di medicina
umana, concordo che la maniera metodologicamente irresponsabile con
cui è condotta e pubblicata tanta parte della sperimentazione
animale ne rende inapplicabili e irripetibili i risultati anche
alle stesse specie oggetto di sperimentazione.14
Ma il British
Medical Journal non aveva avuto bisogno di aspettare questo
studio per farsi un'opinione molto precisa del valore della
vivisezione in medicina. In un editoriale apparso nel 2004 leggiamo
che «la regola abituale del British Medical Journal è
dirottare diligentemente la ricerca che coinvolge animali su altre
riviste». È detto nel modo elegante che ci si può
aspettare da una rivista scientifica britannica, ma il senso è
durissimo: questa storica rivista medica rifiuta a priori,
salvo eccezioni, gli articoli di vivisezione. Insomma, l'irrilevanza
clinica della ricerca di base sugli animali era un segreto di
Pulcinella prima ancora che studi dettagliati quantificassero i
dubbi. Ma, ancora una volta, non credo che il lettore si sia
mai imbattuto in questa informazione del tutto oggettiva (e cioè
quale sia in materia di vivisezione la linea editoriale di una
delle massime riviste mediche mondiali).15
Invece gli può capitare facilmente di incontrare articoli
bugiardi fin dal titolo: “O la cavia o la vita”16
oppure “Diciamo grazie a un babbuino”.17
Quest'ultimo
articolo, di Ignazio Marino (chirurgo e senatore del PD), comincia
con un passo che merita di essere citato per esteso:
Nel 1992 ho ucciso
un babbuino. Lavoravo negli Stati Uniti dove studiavamo la
possibilità di trapiantare organi di animali per salvare vite
umane e superare in questo modo il problema della carenza di
donatori. Il 28 giugno di quell'anno eseguimmo il primo trapianto di
fegato da babbuino a uomo e oggi, a vent'anni di distanza, penso si
trattasse di una strada sbagliata: il sistema immunitario degli
uomini e quello dei babbuini non sono compatibili, nemmeno
utilizzando i farmaci antirigetto più potenti. Ma non rinnego
nulla, quegli esperimenti sono serviti per perfezionare una terapia
che oggi permette di salvare centinaia di migliaia di malati
terminali.
Allora: lo
xenotrapianto babbuino-uomo è «una strada sbagliata»,
e sbagliata per ragioni di principio (l'incompatibilità dei
sistemi immunitari delle due specie, come era già chiaramente
spiegato da Hans Ruesch in Slaughter of the Innocent, apparso
negli Stati Uniti 14 anni prima18);
ma no, Marino non rinnega nulla, perché «quegli
esperimenti sono serviti per perfezionare una terapia che oggi
permette di salvare centinaia di migliaia di malati terminali».
C'è solo da commentare che se seguendo una «strada
sbagliata» si fanno scoperte che salvano «centinaia di
migliaia di malati terminali», figuriamoci che cosa accadrebbe
seguendo una strada giusta...19
Ma detto questo, Marino, non sorprendentemente, cambia argomento e
dice:
[…] i test
sugli animali sono indispensabili e purtroppo non ancora sostituibili
con metodi alternativi, e questo vale per tutti i farmaci e i
vaccini. Rigorose regole internazionali vietano, infatti, di
somministrare a un uomo una medicina se non è stata testata su
due specie animali, una delle quali non può essere un
roditore.
Cioè: i test
sugli animali sono indispensabili perché «rigorose
regole internazionali» li prevedono... Credevamo che Marino
parlasse in quanto uomo di scienza, ed ecco che lo scopriamo uomo di
legge! E se le «rigorose regole internazionali» fossero
scientificamente sbagliate?
A
Marino ha replicato un vero esperto della materia, Claude Reiss, per
35 anni direttore di ricerca in biologia molecolare in Francia, al
CNRS, che ha dichiarato che i test sugli animali non sono
semplicemente uno strumento mediocre. No, sono «la scelta
peggiore che possiamo fare per testare la tossicità di un
medicinale20».
La scelta peggiore.
Ma non esistono,
sull'altra sponda, migliaia di specialisti che ritengono la
vivisezione un importante strumento di progresso medico? Può
darsi. Dico “può darsi” perché ho
frequentato vari settori della comunità scientifica abbastanza
a lungo per sapere che le dichiarazioni ufficiali di uno scienziato
non esprimono necessariamente la sua vera opinione, e che quelle dei
presidenti di associazioni scientifiche sono raramente
rappresentative dell'opinione generale dei membri. Ma, anche se così
non fosse, in ogni caso la verità scientifica non si decide
per alzata di mano.
Per esempio, i presidenti dell'Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani e della Società Italiana Veterinari Animali da Laboratorio (un piccolissimo conflitto di interesse...) in data 7 maggio 2012 hanno indirizzato al Presidente della Repubblica una lettera aperta, nella quale si leggono le seguenti accorate parole21:
Come cittadini e come medici veterinari riteniamo che i principi
costituzionali della tutela della salute umana e della libertà
della ricerca scientifica ad oggi non possono ancora essere
realizzati senza l’utilizzo di animali. Il passaggio diretto
dai sistemi in vitro all’essere umano rischia di determinare
delle conseguenze per la salute umana, che nessuno è in grado
di stimare, e per questo è inaccettabile. […]
[Ricercatori, medici, scienziati e medici veterinari] non potrebbero
proseguire nella conoscenza delle malattie che ancora affliggono gli
animali e i cittadini di questo Paese e nello sviluppo di nuove
terapie nelle quali i pazienti e le loro famiglie ripongono la
speranza per il loro futuro.
Qui si afferma che
se una certa metodica «rischia di determinare delle conseguenze
per la salute umana, che nessuno è in grado di stimare»,
essa è «inaccettabile». Sacrosanto. Ma quali sono
le ragioni addotte per ritenere che, da un lato, tutta la varietà
di metodiche che non utilizzano animali (e che qui sono
imprecisamente e collettivamente descritte con l'espressione “in
vitro”) creerebbero quel rischio, mentre, dall'altro, la
vivisezione lo farebbe evitare? Non ne è offerta
nessuna. Non è un caso: non ce ne sono. Anche
per questo (oltre che per l'incredibile danno di immagine, un vero
autogol per l'intera professione) non c'è molto da
meravigliarsi se tanti veterinari hanno espresso un netto dissenso da
quanto dichiarato dai due presidenti22.
Quando poi si va a
leggere che cosa comitati specificamente incaricati di difendere la
sperimentazione animale riescono a produrre, se ne esce sconfortati.
Per esempio, nel 2010 è stata pubblicata una revisione sulla
ricerca che usa primati non umani da una comitato britannico con
pretese di grande autorevolezza scientifica e presieduto dal biologo
Patrick Bateson, della Royal Society.23
Ebbene, un'analisi dettagliata del contenuto di questo rapporto ha
concluso che:
1. Non è
conforme ai criteri di una revisione sistematica formale, come
definiti dalla Cochrane Collaboration.
2. Non è
conforme ai criteri di un articolo di revisione, come definito dalla
National Library of Medicine.
3. Non è
stato sottoposto a peer-review.
4. Ignora ciò
che oggi sappiamo dei sistemi complessi evoluti. […]
5. Ignora le prove
empiriche correnti e gli articoli di ricerca rilevanti all'uso degli
animali nella ricerca di base e applicata. […]
6. Rassomiglia a un
articolo di opinione scritto da un gruppo di persone con interessi
costituiti in ciò che stanno valutando.24
Insomma, un articolo
che in condizioni normali sarebbe stato respinto anche da una rivista
di modesto livello: e stiamo parlando di un rapporto prodotto da una
cerchia selezionatissima di fautori della vivisezione!
A chi si stupisca
del quadro qui delineato, un paragone può essere utile.
Esistono in tutto il mondo migliaia di specialisti che
sostengono (individualmente o attraverso associazioni) che
l'astrologia «può rivelare gli aspetti profondi della
vostra personalità, compresi abilità, talenti,
motivazioni e sfide in ogni area della vita, dalle relazioni al
denaro, all'amicizia, ai figli, alla famiglia e alla creatività»
– come si legge sul sito dell'American Federation of
Astrologers25
che, di questi specialisti, ne comprende da sola più di 3500.
Ora, una cosa è
certa: se ci sono tanti sostenitori di questa opinione, vuol dire che
intorno ad essa si muove un significativo giro d'affari. Ma ciò
non vuol dire che si tratti di un'opinione fondata sui fatti.
Qualcuno mi dirà che in questi tempi di crisi dell'occupazione
bisogna avere un cuore di pietra per esprimere pubblicamente il
proprio disprezzo per una teoria che crea posti di lavoro. Pur
comprendendo la gravità di questa obiezione, non cambio idea
in merito: e in particolare sul fatto che già nel De
divinatione di Cicerone, di due millenni fa, è contenuta
una confutazione sostanzialmente definitiva della presunta capacità
dell'arte astrologica di emettere giudizi utili «in ogni area
della vita». Inoltre penso che la perdita di posti di lavoro in
un'attività ingannevole è più che compensata dal
minor danno dei clienti, e magari anche dall'apertura di servizi
sostitutivi che ancorino i propri pareri a teorie affidabili.
Un'attività
ingannevole è, tra le altre cose, anche uno sperpero di
denaro, pubblico e privato. Questo è particolarmente vero per
la vivisezione, che oltre che fallace e applicativamente sterile, è
pure molto costosa. Ad esempio, anche in un momento di grave crisi
economica come l'attuale si è potuto pensare di stanziare
mezzo milione di euro per la sola ristrutturazione di uno
stabulario – stanziamento su cui alcuni giorni fa il
consiglio comunale di Trieste, in seguito alle proteste di un gruppo
di cittadini indignati, ha saggiamente votato una mozione che chiede
che lo si storni alla ricerca senza animali e alla piena attuazione
della legge 413/1993.26
A proposito, la legge ora citata è quella che in Italia
permette a studenti, tecnici e ricercatori di fare obiezione di
coscienza alla vivisezione: o meglio, glielo permetterebbe se
le strutture in cui operano ne diffondessero la conoscenza, com'è
categoricamente prescritto dalla legge stessa ma, nondimeno, è
rimasto per molti anni inapplicato un po' in tutte le sedi
universitarie (sì, questa non è una dimenticanza: è
un reato)27.
Concludiamo: la
probabilità che una ricerca condotta su animali porti a
risultati utili in medicina è, per quanto la si può
stimare sulla base dei più autorevoli studi, infima.
Così bassa, che la somma destinata a finanziare diecimila
progetti di sperimentazione animale avrebbe un impiego enormemente
più sicuro ed efficace nella promozione della salute umana se
con essa si finanziassero, invece, progetti di assistenza
domiciliare, di aiuti alimentari e di costruzione di alloggi e
infrastrutture essenziali a favore dei poveri e dei malati, nel
nostro e in altri paesi.
Questo suggerimento
dovrebbe essere accolto con entusiasmo dai vivisezionisti, se
dobbiamo prendere sul serio il rammarico che di solito esprimono a
proposito delle sofferenze che, nel solo interesse della salute degli
esseri umani, si vedono “talvolta” costretti a provocare
agli animali nei laboratori. Si può in effetti ammettere che
molti ricercatori siano realmente convinti che la vivisezione serva
al progresso medico, come la liberazione del Santo Sepolcro era
alcuni secoli fa ritenuta da molti sinceri credenti come il modo più
sicuro di promuovere la fede cristiana, e come tuttora molti
astrologi ritengono che la loro disciplina permetta di aiutare
validamente milioni di loro simili nel compiere scelte delicate. Ma è
ormai tempo di collocare una volta per tutte questi personaggi,
obsoleti e pericolosi, a riposo nel ripostiglio della storia.
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Inserito:
21 maggio 2012
Fondazione
Hans Ruesch per una Medicina senza Vivisezione
www.hansruesch.net
1Mamone
Capria 2003, 2006, 2007, 2009a, 2011, 2012 (ma vedi anche 2008,
2009, 2010).
2Mamone
Capria 2009a.
4
Per i dettagli del ragionamento e i dati su cui si fonda rinvio a
Greek, Greek 2010, pp. 9-10.
5Una
sintesi dell'argomento e dei dubbi ad esso inerenti è offerta
dalla seguente citazione: «È possibile che la coscienza
sia comune a tutti gli
animali multicellulari. Merli, corvi, gazze, pappagalli e altri
uccelli; tonno, ciclide e altri pesci; piovra; e api, sono tutti
capaci di comportamento sofisticato. È probabile che
anch'essi abbiano una certa consapevolezza, che soffrano dolore e
godano piacere. Ciò che differisce tra le specie, e anche tra
i membri della stessa specie, è quanto questi stati di
coscienza siano differenziati, quanto intrecciati e complessi. Di
che cosa sono consci – il contenuto della loro consapevolezza
– è strettamente collegato ai loro sensi e alle loro
nicchie ecologiche. A ognuno il suo. Il repertorio degli stati di
coscienza deve in qualche modo diminuire col diminuire della
complessità del sistema nervoso dell'organismo. Se due delle
più diffuse specie dei laboratori di biologia – il
verme cilindrico Caenorhabditis elegans,
con le sue 302 cellule nervose, e la mosca della frutta Drosophila
melanogaster, con i suoi
100.000 neuroni – hanno qualche stato fenomenico è
difficile da accertare al momento. Senza una solida comprensione
dell'architettura neuronale necessaria a sostenere la coscienza, non
possiamo sapere se c'è un Rubicone nel mondo animale che
separa le creature senzienti da quelle che non sentono niente»
(Koch 2012, p. 36).
6 Contoupolos-Ioannidis et al. 2003.
7Crowley
2003 (corsivo aggiunto).
8Begley
2003.
9Butler
2007 (corsivo aggiunto).
10Butler
2008.
11Mamone
Capria 2011.
12Cfr.
Mamone Capria 2011. Dico “quasi incredibile” perché
in effetti è difficile immaginare un'enormità che non
sia già stata detta in qualche apologia della vivisezione.
13Ne
ho trattato nella prima parte di Mamone Capria 2010.
14Per
esempio Perel et al.
2006, Hackam 2007, van der Worp et al.
2010. A proposito dei pochi casi in cui sembrerebbe esserci una
“concordanza” tra esperimenti su animali e prove
cliniche, bisogna stare molto attenti a non sopravvalutarla (per i
dettagli rimando a Perel et
al. 2006 e al mio commento Mamone
Capria 2007). Sui problemi di riproducibilità intraspecifica,
vedi Mamone Capria 2003.
15Sono
passati 7 anni da quando l'ho pubblicata per la prima volta nella
mia introduzione a Ruesch 2005, p. 13, ma non mi risulta che sia mai
stata ripresa da nessuno.
16Gallavotti
2012.
17Marino
2012.
18Ruesch
1978, pp. 21-7.
19La
storia dei primi xenotrapianti è una storia di crudeli e
prevedibili fallimenti, come raccontato in agghiacciante dettaglio
in Ruesch 2006, pp. 167-89. Quanto a Marino, egli ha partecipato,
nel gennaio 1993, anche a un secondo trapianto di cuore da babbuino
a uomo. Il paziente del primo trapianto era un sieropositivo 35enne
e sopravvisse solo 70 giorni; il secondo aveva 72 anni e ne
sopravvisse ancora meno: 26 giorni, in cui per giunta non riprese
mai coscienza (traggo queste notizie dalla voce dedicata a Marino su
Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Ignazio_Marino
).
20Sironi
2012. Purtroppo anche nella recente puntata di Report (“Dolce
è la vita”, 29 aprile 2012) dedicata all'aspartame si è
accreditata indirettamente l'idea che gli esperimenti sui topi siano
la pietra angolare della valutazione tossicologica. Che le autorità
regolatorie utilizzino i dati ottenuti sugli animali solo quando
torna comodo, è effettivamente uno scandalo, ma uno scandalo
reso possibile da una metodologia intrinsecamente fragile e
manipolabile, come del resto una precedente puntata di Report
(“Uomini e topi”, 22 ottobre 2004) aveva molto bene
messo in evidenza. Per l'aspartame rimando alla seconda parte di
Mamone Capria 2010.
23Bateson
et al. 2010.
24Greek
et al. 2011, p. 17.
27I
risultati di un'inchiesta della Fondazione Hans Ruesch sul rispetto
della legge 413/1993 saranno presto pubblicati.
Fonte: http://www.hansruesch.net/
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