lunedì 21 maggio 2012


Marco Mamone Capria

Difendere la vivisezione come “ricerca di base”


In Italia i media sono stati nelle ultime settimane invasi da interventi a favore della vivisezione. Ciò si deve soprattutto alla risonanza avuta da alcuni successi ottenuti dal movimento antivivisezionista (scimmie della Harlan, cani beagle di Green Hill). Quindi, a me, oppositore della sperimentazione animale invasiva (storicamente e comunemente detta “vivisezione”, anche se il termine non piace a chi la pratica), tale massiccia reazione appare di buon auspicio.

Avendo scritto abbastanza estesamente sull'argomento1, vorrei limitarmi qui a smascherare una strategia retorica relativamente nuova e che i vivisezionisti (cioè i partigiani della vivisezione) stanno adottando in misura crescente. Ricorda molto da vicino un gioco da fiera di antiche tradizioni, il cosiddetto “gioco delle tre carte”. Questo gioco, come il lettore saprà, consiste nel deviare l'attenzione degli astanti in modo che siano indotti a puntare su una delle due carte sbagliate e mancare quella giusta.

La strategia retorica a cui alludo procede in maniera analoga: a chi chiede perché mai dovremmo permettere, e in buona parte, come contribuenti, finanziare la vivisezione, i vivisezionisti (V) rispondono: “Perché solo così si può permettere alla medicina di progredire”. Allora gli oppositori (AV) citano qualcuna delle tante crisi sanitarie causate nell'ultimo mezzo secolo dall'illusione di poter applicare i risultati della sperimentazione animale alla medicina, e il dialogo prosegue più o meno così:

V: – Ma noi non diciamo che i risultati ottenuti sugli animali siano immediatamente applicabili alla medicina!

A: – Tuttavia le estrapolazioni che hanno portato alle citate catastrofi erano state considerate scientificamente legittime dalla vostra comunità professionale... Ma, comunque sia, accettiamo questa ritrattazione: come potete allora continuare a sostenere che senza la vivisezione si arresterebbe il progresso medico?

V: – Lo sosteniamo perché gli esperimenti su animali, anche se non possono essere direttamente applicati all'uomo, fanno parte della cosiddetta “ricerca di base”, e senza ricerca di base non può esserci progresso medico.

Notate lo spostamento dell'attenzione: all'inizio la vivisezione viene presentata come se fosse uno strumento essenziale di scoperta medica, alla fine ci si chiede di considerarla come una branca importante della ricerca di base, cioè di quel tipo di ricerca che, essendo guidata dalla curiosità dei ricercatori, non ha in sé stessa scopi applicativi, anche se potrebbe, alla lunga e per vie traverse e imprevedibili, suggerire qualche applicazione utile.

È ovvio che non si tratta della stessa cosa. Nel valutare la ricerca di base, in qualsiasi campo, e nel decidere di finanziarla, si adottano criteri diversi da quelli dell'utilità per i cittadini: per esempio, si può pensare che sia giusto investire nel perfezionamento di una branca del sapere (non so, la topologia algebrica o la papirologia, per entrambe le quali ho il massimo rispetto) in vista del prestigio culturale che si riflette sulla società che compie un tale investimento. Ma questo è ben diverso dall'avanzare pretese di pubblica utilità, e ormai i vivisettori hanno imparato molto bene due cose, emerse per esempio dalla consultazione europea del 2006 (da me analizzata in un articolo2):

1) una grande maggioranza dell'opinione pubblica in tutti i paesi civili trova riprovevole ciò che fanno;

2) questo rifiuto è meno forte in quel settore del pubblico che si è riusciti a convincere che senza vivisezione la medicina cesserebbe di progredire.

Non c'è da stupirsi del fatto che un certo numero di persone, pur rifiutando istintivamente la vivisezione, sia disposto a tollerarla se l'alternativa fosse l'impossibilità di curare malattie gravi. In fondo basta dipingere il “nemico” a colori abbastanza foschi per convincere i cittadini di un paese sedicente civile a dare il proprio silenzio-assenso alla guerra, cioè allo sterminio pianificato di masse di umani di un altro paese. Così, se gli esperimenti su animali si traducono in applicazioni mediche, allora per molti diventano tollerabili (ma anche per costoro sarebbe molto meglio se si riuscisse a sostituirli!), mentre se sono “ricerca di base” – cioè, in sostanza, se sono eseguiti al solo scopo di soddisfare una curiosità intellettuale –, allora sono giudicati inammissibili, senz'appello, dalla stragrande maggioranza.

Ecco perché diventa indispensabile, per i vivisezionisti impegnati nella comunicazione con il pubblico, rendere la distinzione tra ricerca di base e ricerca applicata il più possibile sfocata.

Nella Dichiarazione di Basilea,3 un documento pubblicato in varie lingue il 29 novembre 2010 per iniziativa di un gruppo di vivisettori, si legge appunto che «non è possibile separare la ricerca biomedica di base dalla ricerca applicata. Si tratta di un continuum che spazia dall'esplorazione dei processi fisiologici di base alla comprensione dei principi della malattia fino allo sviluppo di nuove terapie».

Questi autori hanno evidentemente un'idea alquanto confusa di che cosa sia un continuum. Che i numeri reali tra 0 e 1 formino – come in effetti formano – un continuum non significa che non si possa «separare» 0 da 1. Forse vogliono dire che vi sono ricerche che sarebbe difficile classificare univocamente come “ricerca di base” o “ricerca applicata”. È vero, ma l'ambiguità dei casi intermedi non rende inutile distinguere tra i casi tipici dell'una e dell'altra categoria.

Del resto, la suddetta Dichiarazione denota una vaga consapevolezza della situazione reale, là dove dice: « Per la maggior parte delle circa 30.000 malattie umane, le terapie disponibili offrono solo un sollievo dei sintomi senza individuarne però le cause»: forse agli autori è sfuggito che di questa lamentevole situazione è responsabile anche un secolo e mezzo di ricerca di base largamente fondata sulla sperimentazione animale...

Quest'ultima affermazione va però approfondita, cercando di chiarire due aspetti: A) quanto la medicina sia debitrice alla ricerca di base, e B) quale sia la proporzione di vivisezione nella ricerca di base.

Paradossalmente, il punto B) è il più difficile da stabilire con precisione, in quanto la trasparenza dei dati sui progetti di ricerca approvati non è affatto quella che sarebbe desiderabile. Ritengo tuttavia ragionevole la stima di “almeno la metà” (ma probabilmente molto di più): che cioè almeno la metà dei progetti di ricerca classificati come ricerca biomedica di base riguardino esperimenti invasivi su esseri senzienti.4

A questo proposito occorre fare una precisazione, anche se per alcuni lettori sarà superflua: non tutti i sistemi viventi si possono qualificare come senzienti e, a maggior ragione, come capaci di provare dolore o piacere. Cellule, virus, batteri, organismi unicellulari, vegetali, funghi e, appena un po' meno sicuramente, anche gli animali classici della genetica, cioè il moscerino della frutta (Drosophila melanogaster) e il nematodo (Caenorhabditis elegans), non sono qualificabili come esseri che provano dolore o piacere.5 Questo naturalmente non vuol dire che chi distrugge un fiore fa qualcosa di moralmente irrilevante, ma solo che la rilevanza morale di questo gesto non ha a che fare con l'ipotesi di un dolore provato dal fiore. Ed è appena il caso di aggiungere che un esperimento moralmente lecito non è per ciò stesso valido dal punto di vista scientifico – per non parlare dell'utilità clinica, il punto A), a cui adesso ci volgiamo.

Per il punto A) possiamo rifarci a un importante e qualificato studio statistico che è stato effettuato una decina di anni fa.6 In questo studio sono stati analizzati circa 25.000 articoli di ricerca di base pubblicati durante un quinquennio (1979-1983) in un gruppo di riviste biomediche molto prestigiose, e si è andato a verificare nei 30 anni successivi quanti di essi avessero portato a progressi in campo clinico.

Capisco che per chi è quasi quotidianamente assillato da questue televisive e da lettere di fondazioni mediche che lo invitano a destinare il 5x1000 alla «Ricerca Scientifica», la proporzione che sto per rivelare costituirà uno choc. Dopo essermi assicurato che il lettore stia leggendo questo testo stando comodamente seduto, posso citare il risultato: un solo articolo su 25.000. Cioè una percentuale dello 0,004%. Poiché desidero che non si pensi che questa sia una mia eccentrica interpretazione, vorrei citare per esteso l'autorevole descrizione dello sconcertante risultato contenuta nell'editoriale del numero della rivista in cui lo studio è apparso:

L'articolo di Contopoulos-Ioannidis et al. [2003] in questo numero della rivista tratta una questione molto discussa ma raramente quantificata: la frequenza con cui i risultati della ricerca di base si traducono in utilità clinica. Gli autori eseguirono una ricerca algoritmica al computer di tutti gli articoli pubblicati in sei delle principali riviste scientifiche (Nature, Cell, Science, Journal of Biological Chemistry, Journal of Clinical Investigation, Journal Experimental Medicine) dal 1979 al 1983. Dei 25.000 articoli ricercati, circa 500 (2%) contenevano qualche pretesa di potenziale applicazione agli umani, circa 100 (0,4%) hanno portato a una prova clinica e, secondo gli autori, solo 1 (0,004%) ha condotto allo sviluppo di una classe di farmaci clinicamente utili (gli inibitori dell'enzima convertitore dell'angiotensina) nei 30 anni successivi alla pubblicazione del risultato scientifico di base. Essi hanno anche trovato che la presenza di supporto industriale aumentava la verosimiglianza di tradurre un risultato di base in una prova clinica di 8 volte. Tuttavia, indipendentemente dalle limitazioni dello studio, e anche se gli autori avessero sottostimato di un fattore 10 la frequenza di traduzioni con successo in prove cliniche, i loro risultati suggeriscono fortemente che, come la maggior parte degli osservatori sospettavano, il tasso di trasferimento della ricerca di base all'utilizzo clinico è molto basso.7

Tornando alla vivisezione, anche se la ricerca di base vivisezionista fosse “solo” il 50% di tutta la ricerca di base biomedica, avremmo comunque una frequenza di traduzione clinica della vivisezione estremamente bassa. In altre parole, dallo studio di Contopoulos-Ioannidis e collaboratori si ricava che il potenziale euristico della vivisezione dal punto di vista delle applicazioni cliniche è irrisorio. Ed è interessante notare che alla prova clinica ci si arriva (considerando di nuovo tutta la ricerca di base) solo nello 0,4% dei casi, il che significa che nel 99,6% dei casi la scoperta scientifica di base o è stata ritenuta in linea di principio clinicamente irrilevante nei successivi 30 anni (e questa è la stragrande maggioranza), oppure ha fallito la prova clinica. Quanto siamo lontani dalle “promesse applicative” che si trovano più o meno esplicitamente in tanti articoli biomedici e, più sfacciatamente e frequentemente, nelle sintesi che ne fanno i principali media!

Lo studio di cui abbiamo parlato è stato seguito da molti altri interventi e commenti dedicati a quello che è oggi considerato un grosso problema di impostazione per la ricerca biomedica in generale, e che ha addirittura creato una nuova specialità accademica: l'indagine sulle possibili traduzioni cliniche di risultati della ricerca di base (o «translational research»). Gli articoli dedicati da una rivista dell'establishment come Nature al tema portano titoli simpatici come «Perduto in traduzione» e «Attraversare la valle della morte» (Butler 2007, 2008) – la «valle della morte» essendo appunto quella tra la ricerca di base e le applicazioni mediche. Il Wall Street Journal ha trattato il tema nell'aprile 2003 parlando del rischio che si «stracci […] l'implicito contratto sociale tra il pubblico e l'establishment della ricerca biomedica», e cita un immunologo della Rockefeller University, Ralph Steinman, che ha dichiarato: «I pazienti sono stati troppo pazienti con la ricerca di base».8

A questo punto mi si permetterà una scommessa che sono sicuro di vincere: scommetto che il lettore medio (compreso il laureato in discipline biomediche) non ha praticamente mai sentito dire – dai giornali, dalle televisioni, o dai suoi professori a lezione – che questa è una problematica importante e preoccupante. E come potrebbe? Ciò che gli si propina è costantemente il contrario, cioè la leggenda sulle vie misteriose di una provvidenza scientifica che farebbe imbattere gli scienziati in scoperte mediche mentre nei loro laboratori manipolano topi, ratti, conigli, cani e scimmie ecc. Sembra un altro pianeta – no, è davvero un altro pianeta, ma non esiste nella realtà, bensì soltanto nella interessata fantasia dell'industria medico-farmaceutica e di un certo mondo accademico.

A conferma di ciò, ecco per esempio come comincia il primo dei due articoli di Nature sopra menzionati:

Leggete un qualsiasi articolo scientifico o proposta di finanziamento sulla ricerca di base riguardante le malattie trascurate e troverete inevitabilmente l'affermazione che il lavoro potrebbe condurre a nuove terapie per malattie che affliggono milioni di persone nel mondo in via di sviluppo. Di fatto sono pochi i casi in cui ciò accade, e scienziati, università e finanziatori della ricerca si stanno risvegliando alla realtà che una parte della colpa sta in loro stessi e in una cultura premiale che si concentra eccessivamente su articoli e brevetti, e non su quanto la ricerca benefici effettivamente la società.9

Ecco come il biologo molecolare Alan Schechter dei National Institutes of Health statunitensi descrive la situazione:

NIH sta per National Institutes of Health, non per National Institutes of Biomedical Research, o per National Institutes of Basic Biomedical Research. […] Non stiamo vedendo le scoperte terapeutiche che la gente ha il diritto di aspettarsi”.

E un dirigente dei NIH, Barbara Alving, arriva a dire, senza mezzi termini, che «Gli scienziati clinici e quelli di base non comunicano realmente».10 Altro che continui travasi della ricerca di base nel sapere clinico – i cultori dell'una e dell'altra area nemmeno si parlano...

Non c'è dubbio che rendere conto ai propri lettori di questo attualissimo e imbarazzante dibattito interno alla comunità biomedica sarebbe stato infinitamente più utile che diffondere pseudo-notizie su improbabili e oracolari sviluppi medici di risultati ottenuti su questa o quella specie animale (“ci vorranno almeno 10 anni”...). Sempreché, s'intende, la funzione del sistema dell'informazione nelle nostre società fosse di fornire informazioni vere e utili, cosa della quale è più che lecito dubitare.

Un buon criterio della serietà dei nostri media sarebbe il loro impegno ad andare a verificare regolarmente le promesse applicative passate, piuttosto che perseverare nella finzione che la decimillesima o la milionesima promessa sia... una notizia. Ma dallo studio statistico di cui abbiamo parlato dovrebbe ormai essere chiaro perché i principali media a verificare le promesse di 10 anni fa non ci vanno: l'esito della verifica sarebbe scontato – e non farebbe per niente piacere a certi gruppi industriali che gratificano giornali e canali televisivi con le loro preziose inserzioni pubblicitarie...

Per quanto ci riguarda, continuiamo a tenere i piedi per terra e chiediamoci ora se ci sono studi effettuati specificamente sulla letteratura vivisezionista e intesi a valutarne l'utilità clinica. La risposta è che ci sono. I loro risultati, come ho già avuto modo di scrivere, sono devastanti.

Non ripeterò le citazioni che ho riportato in un altro articolo,11 se non per ricordare che una delle più gloriose testate mediche mondiali, il British Medical Journal, fondata nel 1840, ha pubblicato nel 2004 uno studio dal titolo: “Dove sono le prove che la ricerca su animali porta beneficio agli umani?”.

Una pausa di riflessione: qualsiasi lettore dotato di un minimo di cultura capisce che una rivista scientifica seria può pubblicare un articolo con questo interrogativo nel titolo solo se considera acquisito che la questione non ammetta le risposte di comodo che danno i vivisezionisti (ecco un esempio quasi incredibile ma reale: «Il giorno che non ci sarà più la sperimentazione sugli animali finirà la medicina»12). Inoltre, per quanto ci siano ottime ragioni a favore della dieta vegetariana,13 non è affatto necessario parlarne quando ci si occupa di metodologia della ricerca biomedica, e neppure essere vegetariani per dubitare della solidità della vivisezione sotto questo profilo: sono due questioni distinte, per quanto sia i vivisezionisti sia una parte del mondo animalista si siano uniti in una strana alleanza che cerca di confonderle.

Tornando all'articolo suddetto, la conclusione dei suoi autori è che bisognerebbe stabilire una moratoria per tutta la sperimentazione animale. Nel seguito sono apparsi altri articoli, alcuni dei quali tentano di spiegare l'inapplicabilità degli esperimenti su animali al contesto clinico sottolineando i difetti di impostazione degli esperimenti su animali e le distorsioni causate dalle strategie di pubblicazione delle ricerche. Anche se considero sbagliata l'idea stessa di modello animale per problemi di medicina umana, concordo che la maniera metodologicamente irresponsabile con cui è condotta e pubblicata tanta parte della sperimentazione animale ne rende inapplicabili e irripetibili i risultati anche alle stesse specie oggetto di sperimentazione.14

Ma il British Medical Journal non aveva avuto bisogno di aspettare questo studio per farsi un'opinione molto precisa del valore della vivisezione in medicina. In un editoriale apparso nel 2004 leggiamo che «la regola abituale del British Medical Journal è dirottare diligentemente la ricerca che coinvolge animali su altre riviste». È detto nel modo elegante che ci si può aspettare da una rivista scientifica britannica, ma il senso è durissimo: questa storica rivista medica rifiuta a priori, salvo eccezioni, gli articoli di vivisezione. Insomma, l'irrilevanza clinica della ricerca di base sugli animali era un segreto di Pulcinella prima ancora che studi dettagliati quantificassero i dubbi. Ma, ancora una volta, non credo che il lettore si sia mai imbattuto in questa informazione del tutto oggettiva (e cioè quale sia in materia di vivisezione la linea editoriale di una delle massime riviste mediche mondiali).15 Invece gli può capitare facilmente di incontrare articoli bugiardi fin dal titolo: “O la cavia o la vita”16 oppure “Diciamo grazie a un babbuino”.17

Quest'ultimo articolo, di Ignazio Marino (chirurgo e senatore del PD), comincia con un passo che merita di essere citato per esteso:

Nel 1992 ho ucciso un babbuino. Lavoravo negli Stati Uniti dove studiavamo la possibilità di trapiantare organi di animali per salvare vite umane e superare in questo modo il problema della carenza di donatori. Il 28 giugno di quell'anno eseguimmo il primo trapianto di fegato da babbuino a uomo e oggi, a vent'anni di distanza, penso si trattasse di una strada sbagliata: il sistema immunitario degli uomini e quello dei babbuini non sono compatibili, nemmeno utilizzando i farmaci antirigetto più potenti. Ma non rinnego nulla, quegli esperimenti sono serviti per perfezionare una terapia che oggi permette di salvare centinaia di migliaia di malati terminali.
Allora: lo xenotrapianto babbuino-uomo è «una strada sbagliata», e sbagliata per ragioni di principio (l'incompatibilità dei sistemi immunitari delle due specie, come era già chiaramente spiegato da Hans Ruesch in Slaughter of the Innocent, apparso negli Stati Uniti 14 anni prima18); ma no, Marino non rinnega nulla, perché «quegli esperimenti sono serviti per perfezionare una terapia che oggi permette di salvare centinaia di migliaia di malati terminali». C'è solo da commentare che se seguendo una «strada sbagliata» si fanno scoperte che salvano «centinaia di migliaia di malati terminali», figuriamoci che cosa accadrebbe seguendo una strada giusta...19 Ma detto questo, Marino, non sorprendentemente, cambia argomento e dice:

[…] i test sugli animali sono indispensabili e purtroppo non ancora sostituibili con metodi alternativi, e questo vale per tutti i farmaci e i vaccini. Rigorose regole internazionali vietano, infatti, di somministrare a un uomo una medicina se non è stata testata su due specie animali, una delle quali non può essere un roditore.

Cioè: i test sugli animali sono indispensabili perché «rigorose regole internazionali» li prevedono... Credevamo che Marino parlasse in quanto uomo di scienza, ed ecco che lo scopriamo uomo di legge! E se le «rigorose regole internazionali» fossero scientificamente sbagliate?

A Marino ha replicato un vero esperto della materia, Claude Reiss, per 35 anni direttore di ricerca in biologia molecolare in Francia, al CNRS, che ha dichiarato che i test sugli animali non sono semplicemente uno strumento mediocre. No, sono «la scelta peggiore che possiamo fare per testare la tossicità di un medicinale20». La scelta peggiore.

Ma non esistono, sull'altra sponda, migliaia di specialisti che ritengono la vivisezione un importante strumento di progresso medico? Può darsi. Dico “può darsi” perché ho frequentato vari settori della comunità scientifica abbastanza a lungo per sapere che le dichiarazioni ufficiali di uno scienziato non esprimono necessariamente la sua vera opinione, e che quelle dei presidenti di associazioni scientifiche sono raramente rappresentative dell'opinione generale dei membri. Ma, anche se così non fosse, in ogni caso la verità scientifica non si decide per alzata di mano.

Per esempio, i presidenti dell'Associazione Nazionale Medici Veterinari Italiani e della Società Italiana Veterinari Animali da Laboratorio (un piccolissimo conflitto di interesse...) in data 7 maggio 2012 hanno indirizzato al Presidente della Repubblica una lettera aperta, nella quale si leggono le seguenti accorate parole21:

Come cittadini e come medici veterinari riteniamo che i principi costituzionali della tutela della salute umana e della libertà della ricerca scientifica ad oggi non possono ancora essere realizzati senza l’utilizzo di animali. Il passaggio diretto dai sistemi in vitro all’essere umano rischia di determinare delle conseguenze per la salute umana, che nessuno è in grado di stimare, e per questo è inaccettabile. […] [Ricercatori, medici, scienziati e medici veterinari] non potrebbero proseguire nella conoscenza delle malattie che ancora affliggono gli animali e i cittadini di questo Paese e nello sviluppo di nuove terapie nelle quali i pazienti e le loro famiglie ripongono la speranza per il loro futuro.

Qui si afferma che se una certa metodica «rischia di determinare delle conseguenze per la salute umana, che nessuno è in grado di stimare», essa è «inaccettabile». Sacrosanto. Ma quali sono le ragioni addotte per ritenere che, da un lato, tutta la varietà di metodiche che non utilizzano animali (e che qui sono imprecisamente e collettivamente descritte con l'espressione “in vitro”) creerebbero quel rischio, mentre, dall'altro, la vivisezione lo farebbe evitare? Non ne è offerta nessuna. Non è un caso: non ce ne sono. Anche per questo (oltre che per l'incredibile danno di immagine, un vero autogol per l'intera professione) non c'è molto da meravigliarsi se tanti veterinari hanno espresso un netto dissenso da quanto dichiarato dai due presidenti22.

Quando poi si va a leggere che cosa comitati specificamente incaricati di difendere la sperimentazione animale riescono a produrre, se ne esce sconfortati. Per esempio, nel 2010 è stata pubblicata una revisione sulla ricerca che usa primati non umani da una comitato britannico con pretese di grande autorevolezza scientifica e presieduto dal biologo Patrick Bateson, della Royal Society.23 Ebbene, un'analisi dettagliata del contenuto di questo rapporto ha concluso che:

1. Non è conforme ai criteri di una revisione sistematica formale, come definiti dalla Cochrane Collaboration.
2. Non è conforme ai criteri di un articolo di revisione, come definito dalla National Library of Medicine.
3. Non è stato sottoposto a peer-review.
4. Ignora ciò che oggi sappiamo dei sistemi complessi evoluti. […]
5. Ignora le prove empiriche correnti e gli articoli di ricerca rilevanti all'uso degli animali nella ricerca di base e applicata. […]
6. Rassomiglia a un articolo di opinione scritto da un gruppo di persone con interessi costituiti in ciò che stanno valutando.24

Insomma, un articolo che in condizioni normali sarebbe stato respinto anche da una rivista di modesto livello: e stiamo parlando di un rapporto prodotto da una cerchia selezionatissima di fautori della vivisezione!

A chi si stupisca del quadro qui delineato, un paragone può essere utile. Esistono in tutto il mondo migliaia di specialisti che sostengono (individualmente o attraverso associazioni) che l'astrologia «può rivelare gli aspetti profondi della vostra personalità, compresi abilità, talenti, motivazioni e sfide in ogni area della vita, dalle relazioni al denaro, all'amicizia, ai figli, alla famiglia e alla creatività» – come si legge sul sito dell'American Federation of Astrologers25 che, di questi specialisti, ne comprende da sola più di 3500.

Ora, una cosa è certa: se ci sono tanti sostenitori di questa opinione, vuol dire che intorno ad essa si muove un significativo giro d'affari. Ma ciò non vuol dire che si tratti di un'opinione fondata sui fatti. Qualcuno mi dirà che in questi tempi di crisi dell'occupazione bisogna avere un cuore di pietra per esprimere pubblicamente il proprio disprezzo per una teoria che crea posti di lavoro. Pur comprendendo la gravità di questa obiezione, non cambio idea in merito: e in particolare sul fatto che già nel De divinatione di Cicerone, di due millenni fa, è contenuta una confutazione sostanzialmente definitiva della presunta capacità dell'arte astrologica di emettere giudizi utili «in ogni area della vita». Inoltre penso che la perdita di posti di lavoro in un'attività ingannevole è più che compensata dal minor danno dei clienti, e magari anche dall'apertura di servizi sostitutivi che ancorino i propri pareri a teorie affidabili.

Un'attività ingannevole è, tra le altre cose, anche uno sperpero di denaro, pubblico e privato. Questo è particolarmente vero per la vivisezione, che oltre che fallace e applicativamente sterile, è pure molto costosa. Ad esempio, anche in un momento di grave crisi economica come l'attuale si è potuto pensare di stanziare mezzo milione di euro per la sola ristrutturazione di uno stabulario – stanziamento su cui alcuni giorni fa il consiglio comunale di Trieste, in seguito alle proteste di un gruppo di cittadini indignati, ha saggiamente votato una mozione che chiede che lo si storni alla ricerca senza animali e alla piena attuazione della legge 413/1993.26 A proposito, la legge ora citata è quella che in Italia permette a studenti, tecnici e ricercatori di fare obiezione di coscienza alla vivisezione: o meglio, glielo permetterebbe se le strutture in cui operano ne diffondessero la conoscenza, com'è categoricamente prescritto dalla legge stessa ma, nondimeno, è rimasto per molti anni inapplicato un po' in tutte le sedi universitarie (sì, questa non è una dimenticanza: è un reato)27.
Concludiamo: la probabilità che una ricerca condotta su animali porti a risultati utili in medicina è, per quanto la si può stimare sulla base dei più autorevoli studi, infima. Così bassa, che la somma destinata a finanziare diecimila progetti di sperimentazione animale avrebbe un impiego enormemente più sicuro ed efficace nella promozione della salute umana se con essa si finanziassero, invece, progetti di assistenza domiciliare, di aiuti alimentari e di costruzione di alloggi e infrastrutture essenziali a favore dei poveri e dei malati, nel nostro e in altri paesi.

Questo suggerimento dovrebbe essere accolto con entusiasmo dai vivisezionisti, se dobbiamo prendere sul serio il rammarico che di solito esprimono a proposito delle sofferenze che, nel solo interesse della salute degli esseri umani, si vedono “talvolta” costretti a provocare agli animali nei laboratori. Si può in effetti ammettere che molti ricercatori siano realmente convinti che la vivisezione serva al progresso medico, come la liberazione del Santo Sepolcro era alcuni secoli fa ritenuta da molti sinceri credenti come il modo più sicuro di promuovere la fede cristiana, e come tuttora molti astrologi ritengono che la loro disciplina permetta di aiutare validamente milioni di loro simili nel compiere scelte delicate. Ma è ormai tempo di collocare una volta per tutte questi personaggi, obsoleti e pericolosi, a riposo nel ripostiglio della storia.


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Inserito: 21 maggio 2012
Fondazione Hans Ruesch per una Medicina senza Vivisezione
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1Mamone Capria 2003, 2006, 2007, 2009a, 2011, 2012 (ma vedi anche 2008, 2009, 2010).
2Mamone Capria 2009a.
4 Per i dettagli del ragionamento e i dati su cui si fonda rinvio a Greek, Greek 2010, pp. 9-10.
5Una sintesi dell'argomento e dei dubbi ad esso inerenti è offerta dalla seguente citazione: «È possibile che la coscienza sia comune a tutti gli animali multicellulari. Merli, corvi, gazze, pappagalli e altri uccelli; tonno, ciclide e altri pesci; piovra; e api, sono tutti capaci di comportamento sofisticato. È probabile che anch'essi abbiano una certa consapevolezza, che soffrano dolore e godano piacere. Ciò che differisce tra le specie, e anche tra i membri della stessa specie, è quanto questi stati di coscienza siano differenziati, quanto intrecciati e complessi. Di che cosa sono consci – il contenuto della loro consapevolezza – è strettamente collegato ai loro sensi e alle loro nicchie ecologiche. A ognuno il suo. Il repertorio degli stati di coscienza deve in qualche modo diminuire col diminuire della complessità del sistema nervoso dell'organismo. Se due delle più diffuse specie dei laboratori di biologia – il verme cilindrico Caenorhabditis elegans, con le sue 302 cellule nervose, e la mosca della frutta Drosophila melanogaster, con i suoi 100.000 neuroni – hanno qualche stato fenomenico è difficile da accertare al momento. Senza una solida comprensione dell'architettura neuronale necessaria a sostenere la coscienza, non possiamo sapere se c'è un Rubicone nel mondo animale che separa le creature senzienti da quelle che non sentono niente» (Koch 2012, p. 36).
6 Contoupolos-Ioannidis et al. 2003.
7Crowley 2003 (corsivo aggiunto).
8Begley 2003.
9Butler 2007 (corsivo aggiunto).
10Butler 2008.
11Mamone Capria 2011.
12Cfr. Mamone Capria 2011. Dico “quasi incredibile” perché in effetti è difficile immaginare un'enormità che non sia già stata detta in qualche apologia della vivisezione.
13Ne ho trattato nella prima parte di Mamone Capria 2010.
14Per esempio Perel et al. 2006, Hackam 2007, van der Worp et al. 2010. A proposito dei pochi casi in cui sembrerebbe esserci una “concordanza” tra esperimenti su animali e prove cliniche, bisogna stare molto attenti a non sopravvalutarla (per i dettagli rimando a Perel et al. 2006 e al mio commento Mamone Capria 2007). Sui problemi di riproducibilità intraspecifica, vedi Mamone Capria 2003.
15Sono passati 7 anni da quando l'ho pubblicata per la prima volta nella mia introduzione a Ruesch 2005, p. 13, ma non mi risulta che sia mai stata ripresa da nessuno.
16Gallavotti 2012.
17Marino 2012.
18Ruesch 1978, pp. 21-7.
19La storia dei primi xenotrapianti è una storia di crudeli e prevedibili fallimenti, come raccontato in agghiacciante dettaglio in Ruesch 2006, pp. 167-89. Quanto a Marino, egli ha partecipato, nel gennaio 1993, anche a un secondo trapianto di cuore da babbuino a uomo. Il paziente del primo trapianto era un sieropositivo 35enne e sopravvisse solo 70 giorni; il secondo aveva 72 anni e ne sopravvisse ancora meno: 26 giorni, in cui per giunta non riprese mai coscienza (traggo queste notizie dalla voce dedicata a Marino su Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Ignazio_Marino ).
20Sironi 2012. Purtroppo anche nella recente puntata di Report (“Dolce è la vita”, 29 aprile 2012) dedicata all'aspartame si è accreditata indirettamente l'idea che gli esperimenti sui topi siano la pietra angolare della valutazione tossicologica. Che le autorità regolatorie utilizzino i dati ottenuti sugli animali solo quando torna comodo, è effettivamente uno scandalo, ma uno scandalo reso possibile da una metodologia intrinsecamente fragile e manipolabile, come del resto una precedente puntata di Report (“Uomini e topi”, 22 ottobre 2004) aveva molto bene messo in evidenza. Per l'aspartame rimando alla seconda parte di Mamone Capria 2010.
23Bateson et al. 2010.
24Greek et al. 2011, p. 17.
27I risultati di un'inchiesta della Fondazione Hans Ruesch sul rispetto della legge 413/1993 saranno presto pubblicati.

Fonte: http://www.hansruesch.net/

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